lunedì 19 aprile 2010

La Corte Costituzionale castra i matrimoni gay

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giovedì 21 gennaio 2010

A quando La Corte di Appello in Capitanata?


Questa non è una rivendicazione sindacale da parte degli avvocati, ma è un sacrosanto diritto di tutti i cittadini che risiedono in Capitanata, i quali vengono costantemente ignorati (tranne quando si và a votare...) sia dallo Stato che dalla Regione Puglia!

Pensate che il territorio della provincia di Foggia si caratterizza anche per la presenza di due circoscrizioni giudiziare – i Tribunali di Foggia e Lucera – la cui ragion d’essere è collegata a diversi elementi: vastità del territorio, numero di residenti, indicatori giudiziari.
Per numero di Comuni ed estensione territoriale, quella di Foggia è tra le province italiane più grandi; caratterizzata, inoltre, dalla compresenza di subsistemi geografici – zone appenniniche, Gargano, Piana del Tavoliere – che rendono particolarmente difficoltosi i collegamenti tra le diverse località.
A maggior ragione tra i centri della provincia di Foggia e il capoluogo regionale, sede della Corte d’Appello, della Corte d’Assise d’Appello e del Tribunale per i minorenni più vicini: in media occorre percorrere 165 chilometri per raggiungere Bari (ma gli abitanti di Vico del Gargano ne devono percorrere 232) con tutto ciò che ne consegue in termini di costi per i cittadini.
In rapporto alla popolazione residente – oscillante tra i 650.000 e i 700.000 abitanti – il numero degli affari penali e civili è tra i più rilevanti dell’intera regione Puglia.
Ciò anche a causa, sotto il profilo penale, dell’emersione di organizzazioni criminali di chiaro stampo mafioso, come accertato dalla magistratura. E’ quest’ultimo un elemento di forte pericolosità sociale e di elevata criticità economica, cui è necessario rispondere con l’attivazione, da parte dello Stato, di misure idonee sotto il profilo della prevenzione e della repressione. Tra queste c’è la costituzione della sezione locale della Direzione Distrettuale Antimafia, attuabile solo laddove esista una Corte d’Appello. Infine, la mancanza del Tribunale per i minorenni, e di un collegato istituto per la rieducazione minorile, provoca enormi disagi sotto il profilo sociale ai ragazzi coinvolti in procedimenti penali e alle loro famiglie, per la gran parte economicamente svantaggiate, le cui relazioni vengono di fatto interrotte pressoché totalmente a causa della distanza con il capoluogo regionale.
Cari colleghi e cari concittadini, questo non sarebbe un buon motivo per far sentire, almeno per una volta, all'unanimità, la nostra voce sia a Roma che a Bari?

martedì 3 novembre 2009

La Corte di Strasburgo dice No al crocifisso, ma l'Italia farà ricorso


La vicenda relativa all'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche - sulla quale è arrivato oggi il no all'Italia da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo - risale al 2002 ed ha avuto un lungo iter giudiziario.
IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar per il Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe stata presa in violazione del principio di laicità dello Stato, che impedirebbe l'esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perché violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell'Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: uno del 1924, n. 965; l'altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato (n. 63/88).
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un approfondito esame delle norme regolamentari sull'esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Estende, tuttavia, l'esame alla valutazione di altri profili della vicenda e rimette gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l'obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La consulta dichiara inammissibile il ricorso: le norme sull'esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento interpretativo" della Corte. Gli atti tornano al Tar per la decisione sul ricorso.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA' - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato repubblicano". Si conclude con queste parole la sentenza (n. 1110 del 22 marzo 2005) con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano Terme
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne. Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni"; non è né una "suppellettile", né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua libertà, autonomia della coscienza morale nei confronti dell'autorità, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un'origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell'attuale ordinamento dello Stato".
CONSIDERAZIONI
In attesa di conoscere le motivazioni della Corte di Strasburgo, non ci si può esimere, in prima facie di constatare il tentativo di usare il diritto come grimaldello per scardinare la Fede dalla vita pubblica non solo italiana ma europea. Trattasi dunque di sentenza politica che non ha tenuto minimamente conto della pronuncia del Consiglio di Stato italiano, favorevole all'esposizione del crocifisso nelle scuole!

sabato 24 ottobre 2009

Contratto di Posteggio


Il contratto di posteggio è, de iure civili, concluso nel momento in cui l’autoveicolo viene immesso e lasciato nell'apposito spazio all'interno del parcheggio con il consenso del depositario. E’ sufficiente, quindi, il solo collocamento dell’autoveicolo nel parcheggio perché il contratto possa ritenersi concluso (Cass. civ. sez. III, 21 giugno 1993, n. 6866).
Il fine essenziale cui tende tale contratto è quello della conservazione della cosa, laddove l’obbligazione di custodire rappresenta la prestazione qualificatrice del contratto, tale da determinare il tipo di negoziale in cui il contratto stesso si sostanzia. Il primo dovere per il depositario è quello di provvedere alla custodia delle cose consegnate, infatti, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che la conclusione del contratto di parcheggio importa l’affidamento del veicolo al gestore con l’obbligo di custodirlo e di restituirlo nello stato in cui gli è stato consegnato (Cass., 23 agosto 1990, n. 8615; sul contratto di parcheggio vedansi le risalenti Cass. 12 febbraio 1952, n. 337 e 14 febbraio 1966, n. 459, nonché idd., 25 febbraio 1981, n. 1144, 2 marzo 1985, n. 1787, 3 dicembre 1990, n. 11568, 26 febbraio 2004, n. 3863 [cit. infra]; tra la giurisprudenza di merito, App. Milano, 30 maggio 2000, Pret. La Spezia, 1 agosto 1992, App. Milano, 29 giugno 1999 .
Degne di menzione, sul punto, le seguenti due sentenze di merito:
Pret. La Spezia, 1 agosto 1992: «Il titolare di un parcheggio custodito è tenuto a risarcire al cliente il danno subito dal suo veicolo durante il tempo in cui lo stesso è stato affidato alla sua custodia»;
App. Milano, 29 giugno 1999: «Il contratto di parcheggio di autovetture in autosili comporta, salva diversa volontà delle parti, l’affidamento del veicolo al gestore del parcheggio con l’obbligo di custodirlo e restituirlo nello stato in cui gli è stato consegnato».
I profili di cui ai precedenti citati sono stati approfonditi dalla S.C. nella sentenza 26 febbraio 2004, n. 3863, nella cui motivazione viene posta in particolare risalto la funzione economico – sociale del contratto di posteggio, deducendosi quanto segue:
- «. . . chi immette la propria auto in un’area di parcheggio recintata è interessato anche alla custodia del veicolo e non vuole soltanto disporre di uno spazio per lasciare l’auto;
- se così non fosse non vi sarebbe differenza con chi parcheggia l’auto in una strada o area pubblica;
- l’obbligazione principale del gestore del parcheggio è di custodire la vettura che l’automobilista immette nel parcheggio recintato, per evitare di lasciarla in luogo pubblico, con i rischi che conseguono alla mancanza di custodia. . .Il contratto che se ne ricava è del tipo di quelli nei quali all’offerta della prestazione di parcheggio corrisponde l’accettazione dell’utente, manifestata attraverso l’immissione dell’auto nell’area messa a disposizione. Dalla combinazione di questi fattori nasce il vincolo contrattuale il quale si realizza attraverso il contatto sociale. Nella realtà il fenomeno è frequente e trova la sua radice nelle condizioni di affollamento delle strade, nell’urgenza dell’automobilista di liberarsi del veicolo o in altre condizioni simili. Tutto ciò induce l’automobilista ad utilizzare strutture appositamente predisposte nelle aree adiacenti aeroporti, ospedali, supermercati e simili».
Com’è stato rilevato, una clausola che escluda la responsabilità del posteggiatore, configurerebbe sempre un atto limitativo delle obbligazioni tipiche del depositario, con la conseguenza che - ove contenuta in condizioni generali di contratto - deve considerarsi vessatoria, e perciò inefficace se non specificamente approvata per iscritto.
Ne discende l'irrilevanza di una manifestazione unilaterale di volontà del depositario che, a mezzo di cartelli esposti, declini la propria responsabilità sugli oggetti depositati (giur. costante, cfr. Cass. civ. 16.04.1993 n. 4540).
Ed ancora, sul punto, la recente Cass., Sez. III, sentenza 27 gennaio 2009 n. 1957, che qualifica inefficace, se non approvata per iscritto, la clausola, contenuta nelle condizioni generali di un contratto di parcheggio, con cui si prevede una limitazione o l’esclusione della responsabilità del custode. Ancora, nel caso preso in considerazione, la S.C. esclude valenza limitativa di responsabilità alla mera affissione di avvisi et similia contenenti declinatorie in capo ai gestori, salva, si ripete, la stipulazione per iscritto.
Ed infine, in una fattispecie di merito, Giudice di Pace di Salerno, Dott. Veronica La Mura, sentenza del 10/2/07:
“… Non ha alcuna rilevanza il fatto che, nel regolamento del parcheggio, contenuto nelle condizioni generali di contratto, venga esclusa la responsabilità da danni, dovendosi tale clausola essere considerata vessatoria e perciò inefficace, se non specificamente approvata. … All’ingresso delle aree di parcheggio gestite dalla **********S.p.A. vi sono dei cartelli che disciplinano la sosta tra cui: l’onere a carico degli utenti di accertare all’ingresso del parcheggio “la verifica dello stato dei veicoli al fine di constatarne l’integrità e /o eventuali danni”…. La conferma di tale normativa è la prova che il contratto della *********S.p.A. è vessatorio ed in violazione alle norme di cui agli artt. 1766 e 1768 c.c., che prevedono l’obbligatorietà di custodire il bene con la diligenza del buon padre di famiglia. L’obbligo principale, in capo al depositario, è quello di custodire la cosa e di riconsegnarla nello stato in cui è stata lasciata.”

venerdì 25 settembre 2009

Omicidio Romagnoli: 16 anni e 4 mesi per il lucerino Ricciardi


Si è concluso dopo circa un anno e mezzo il processo di primo grado con il rito abbreviato a carico di Franco Ricciardi - accusato dell’omicidio di Assunta Romagnolo avvenuto la sera del 30 gennaio 2008 davanti alla chiesa di San Giacomo di Lucera - e di suo padre Nicola, in un primo momento ritenuto responsabile di aver istigato il figlio a commettere l’efferato delitto con un coltello da cucina lungo 19 centimetri. La sentenza è arrivata intorno alle 15, dopo un’ora di camera di consiglio del giudice del tribunale di Lucera Carlo Chiariaco che ha inflitto al 28enne lucerino la pena di 16 anni e 4 mesi di reclusione, di fatto accogliendo in pieno la tesi accusatoria del pubblico ministero Pasquale De Luca che aveva chiesto 16 anni e 6 mesi, con la sola aggravante dei motivi abietti. Per il padre, invece, è arrivata l’assoluzione per il reato di istigazione, ma gli è stato riconosciuto quello di concorso in omicidio e una pena di un anno di libertà vigilata, ottenuta grazie alla sua condizione di incensurato. Il suo legale Aurelio Follieri aveva chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, attribuendo a una lunga serie di precedenti liti tra le famiglie abitanti la palazzina di Via Alfio Lepore una sorta di prologo dell’omicidio stesso, contesto peraltro confermato dallo stesso pubblico ministero che ha parlato di una “situazione esplosiva” nel condominio da cui sono partite querele incrociate tra i Ricciardi e una terza famiglia, con il successivo coinvolgimento dei Carrivale-Romagnolo. Tre invece sono gli anni di libertà vigilata assegnati a Franco Ricciardi in coda alla pena detentiva.
L’udienza di oggi in realtà è stata una vera e propria battaglia a colpi di termini e patologie psichiatriche tra accusa, difesa e parte civile, con le perizie del professor Felice Carabellese, docente di Psichiatria, Criminologia Clinica e Psicopatologia Forense dell’Università di Bari, che sono state il terreno di scontro tra le parti. L’esperto barese, infatti, è stato chiamato per ben due volte a esprimersi sulle condizioni mentali di Franco Ricciardi, emettendo una prima diagnosi che parlava di disturbi oligofrenici (insufficienza mentale) tale comunque da non pregiudicarne la sua imputabilità nel processo. In un secondo momento ha confermato la sua trattazione con l’aggiunta della presenza di un “tema delirante persecutorio associato a dei tratti di antisocialità”. Due altri psichiatri, che avevano visitato Ricciardi nella struttura detentiva di Taranto, dove è attualmente carcerato, avevano invece descritto una situazione mentale molto più grave. Da qui la richiesta dell’avvocato difensore Luigi Follieri di una nuova perizia collegiale, rigettata dal giudice, con il riconoscimento della incapacità di intendere e di volere e della semi infermità mentale.
Come sempre presente in aula al grande completo la famiglia Romagnolo, alla quale è stata riconosciuta anche una provvisionale di 250 mila euro, e che si è detta soddisfatta dell’esito del primo grado di giudizio. “La sentenza di oggi rappresenta il massimo di quanto potevamo ottenere in questo momento – ha commentato il legale di parte civile Giacomo Grasso – e siamo anche contenti perché il giudice ha riconosciuto le nostre tesi, non dando credito ai comportamenti del principale imputato che per noi restano delle simulazioni”. (Luceraweb)

lunedì 31 agosto 2009

FACEBOOK ed il codice penale


Quali reati possono configurarsi a mezzo Facebook?

Molti sono i comportamenti che potrebbero portare i soggetti che usano facebook ad incorrere in responsabilità penale. Per semplificare dividerei i comportamenti in due categorie a seconda della tipologia di reato che si potrebbe commettere:

a) Vi sono i reati commessi da chi sfrutta Facebook, le sue caratteristiche, per realizzare i propri intenti illeciti. Facebook è un pretesto nulla di più. In questa categoria vi rientrano ad esempio:

• l'invio di materiale pubblicitario non autorizzato (la c.d. attività di spamming) o la raccolta e l'utilizzo indebito di dati personali, attività espressamente vietate dal T.U. sulla privacy (d.lgs. n. 196 del 2003);

• l'utilizzo dei contatti per trasmettere volutamente virus informatici, punito dall'art. 615-quinquies;• l'utilizzo dei contatti per acquisire abusivamente codici di accesso per violare sistemi informatici (punito dall'art. 615-quater)

• lo scambio di immagini pedopornografiche che integra gli estremi del reato ad es. di cessione di materiale pedopornografico di cui all'art. 600-ter c.p.;

• inviare messaggi di propaganda politica di incitamento all'odio, alla discriminazione razziale, ecc. In questi casi Facebook è soltanto il pretesto per realizzare reati. Siamo nella patologia.

b) Nella seconda categoria, invece, vi rientrano i comportamenti di chi utilizza Facebook per la funzione che gli è propria, ossia quello di creare contatti tra gli utenti per facilitare la comunicazione e nel far questo, essenzialmente per superficialità, nel comunicare con il proprio gruppo di amici, va un po' al di là del lecito, ed entra nel terreno minato del diritto penale.Il reato più frequente, che si può verificare in questi casi, è quello di diffamazione. L'inserimento di frasi offensive, battute pesanti, notizie riservate la cui divulgazione provoca pregiudizi, foto denigratorie o comunque la cui pubblicazione ha ripercussioni negative, anche potenziali, sulla reputazione della persona ritratta possono integrare gli estremi del reato di diffamazione, punito dall'art. 595 c.p. Facciamo qualche esempio:

• sicuramente creare il gruppo "Quelli che odiano il datore di lavoro bastardo" oppure "Quelli a cui sta antipatica la bidella cretina" sono comportamenti che integrano gli estremi della diffamazione; le espressioni "bastardo" o "cretina" hanno una inequivoca carica offensiva;• ma lo è anche rivelare sulla propria o altrui bacheca che il collega di lavoro – non so – ha, ha una relazione extraconiugale con la segretaria;

• è diffamazione ad es. inserire la foto – come è accaduto – della propria ex fidanzata nuda o in atteggiamenti intimi.Particolare attenzione porterei alle foto, molto spesso accade che utenti di Facebook, in modo un po' troppo disinvolto, senza pensare minimamente alle conseguenze, inseriscano foto che ritraggano loro amici in situazioni imbarazzanti. Spesso ci si espone a responsabilità penali senza saperlo. Facciamo un esempio, per comprendere: si pensi all'amico, sposato, che, una sera, all'insaputa della moglie che si trova fuori città per lavoro, viene ritratto all'interno di un locale equivoco e malfamato con sottobraccio due ballerine, magari anche in evidente stato di alterazione alcolica. L'amico burlone utilizza la foto per farla vedere agli amici del gruppo di Facebook a cui i due appartengono e inserisce una frase del tipo: "quando il gatto non c'è i topi ballano…"Un tale comportamento è sicuramente diffamatorio. Non ci si può nemmeno difendere dicendo che comunque l'amico aveva consentito a che gli venisse scattata la foto. La Cassazione, anche recentemente, in un procedimento per diffamazione per pubblicazione di foto in un contesto lesivo della reputazione, ha precisato che il consenso ad essere ritratti non comporta il consenso a utilizzare le foto, soprattutto se tale utilizzo avviene in contesti che espongono il soggetto a lesioni della propria reputazione (.Si badi bene, affinché vi sia diffamazione è necessario:

a) la comunicazione con più persone, la giurisprudenza dice che sono sufficienti almeno due persone;Quindi non costituisce diffamazione il "pettegolezzo" riferito all'amico tramite messaggio privato, ma solo se pubblicato sulla bacheca, visibile a tutto il gruppo di amici o comunque a due o più persone. In difetto, senza la comunicazione con più persone, anche in tempi diversi, non c'è reato.
b) l'offesa deve essere rivolta a soggetto determinato o determinabile. Se si parla male di una persona senza far capire di chi si tratta non è reato. Ma per aversi diffamazione non è necessario mettere nome, cognome, generalità del diffamato: è sufficiente inserire riferimenti che consentano di rendere conoscibile la persona offesa o comunque attribuibile l'offesa ad una persona determinata.Il problema della determinabilità della persona offesa (si parla di pregiudiziale di determinatezza) si pone spesso con riferimento alle offese rivolte a categorie o gruppi di persone. In questi casi la sussistenza del reato dipende – così insegna un maestro del diritto penale quale il Prof. Enzo Musco – dall'ampiezza del gruppo a cui si rivolge l'offesa. Più è ampio e meno vi è il rischio di diffamazione, più è ristretto e più vi è probabilità di incorrere in reato. Facciamo qualche esempio:

• dire che gli avvocati di Grosseto sono tutti dei ladri espone il soggetto ad azione civile per il risarcimento del danno all'immagine da parte del Consiglio dell'ordine di Grosseto, ma non lo espone a responsabilità al reato di diffamazione, perché l'offesa non è rivolta ad un soggetto determinato, ma a una pluralità indistinta di soggetti. La categoria avvocati di Grosseto – siamo più di 500 – è talmente ampia che difficilmente si potrà dire l'offesa sia attribuibile ad una persona determinata;

• il ragazzo che su Facebook crea il gruppo quelli che odiano quegli s…… di professori della 3^ del liceo scientifico Pinco Pallino del paese Vattelapesca invece rischia di incorrere nel reato di diffamazione. È vero che l'offesa non è rivolta in specifico a nessuno dei soggetti, ma comunque il gruppo è talmente ristretto che l'offesa (la parola s…..) è tale da ledere la reputazione di ogni singolo docente.

2) La diffamazione è semplice o aggravata? Tenere un comportamento diffamatorio su internet integra gli estremi della diffamazione aggravata dall'art. 595 comma 3 che punisce in modo più pesante il reato commesso con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. La Cassazione dice che internet è sicuramente un mezzo di pubblicità. La pronuncia del 2008 si riferiva ad una denuncia pubblicata su un sito web accessibile a tutti gli utenti della rete.Con riferimento a Facebook o a social network analoghi, la Cassazione non si è ancora pronunciata. Se ne potrebbe discutere, visto che le comunicazioni (ad es. quelle sulle bacheche) non sono visibili a tutti, ma solo al gruppo di amici cui appartiene il soggetto titolare della bacheca. Secondo me bisogna verificare caso per caso e tenere presente:

• che il gruppo di amici comunque non è chiuso, ma normalmente è aperto. Al gruppo possono accedere dei nuovi amici, questo potrebbe essere sufficiente a poter qualificare come mezzo di pubblicità in quanto l'offesa rischia di venir percepita da un numero indeterminato e indeterminabile di soggetti;• il numero di appartenenti al gruppo (tra l'altro si ritiene recata con mezzo di pubblicità una circolare indirizzata a un numero rilevante di persone: v. F. Mantovani, Delitti contro la persona, Padova, 2008, p.): si pensi a quello che ha, come spesso accade, centinaia di amici, ciascuno dei quali può accedere al mezzo.Tendenzialmente l'offesa su Facebook è aggravata dalla realizzazione della medesima con mezzo pubblicitario, a meno che nel caso concreto non risulti il contrario (ad es. se risulta che il gruppo di amici è molto limitato e sostanzialmente chiuso). 3) Quali conseguenze ne derivano? Penalmente le conseguenze sono diverse a seconda se sia ravvisabile o meno l'aggravante del mezzo di pubblicità.Se è ravvisabile l'aggravante il reato viene giudicato dal Tribunale e le pene sono più severe (anche con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni) e il casellario giudiziale (la c.d. fedina penale) rimane macchiato a tempo indeterminato.Se non lo è, invece, sarà il giudice di pace a pronunciarsi e le pene più modeste: 99/100 consistono in modeste pene pecuniarie (intorno ai 1.000 – 1.500 euro) e la fedina penale resterà macchiata solo per 5 anni (trascorsi i quali, se non sono commessi altre reati, ritorna immacolata).Il vero problema non è però rappresentato tanto dalla pena (quella del giudice di pace è modesta, quella del tribunale il più delle volte viene condizionalmente sospesa), ma dai costi connessi al procedimento penale che più o meno sono gli stessi sia in tribunale che dal giudice di pace. In caso di condanna occorre infatti:• pagare il legale della parte civile, secondo la liquidazione effettuata dal giudice, circa 2.000/2.500 euro;• pagare il proprio legale, secondo le pattuizioni con il medesimo (altrettanto se non di più rispetto a quello della parte civile);• il risarcimento dei danni provocati alla parte lesa (diversamente quantificabili a seconda dell'entità dei medesimi).Per una sciocchezza, si rischia di dover sborsare 10.000 euro senza nemmeno accorgersene.

4) Come si quantifica il danno? Il danno non è facilmente quantificabile. Non vi sono dei criteri oggettivi. Non si può quantificare con esattezza come quando si provoca un danno ad un'auto, per i quali vi sono dei precisi criteri di determinazione. In questo caso l'individuazione dell'entità viene rimessa – si dice – alla valutazione equitativa del giudice. Una formula un po' fumosa che rimette la quantificazione del danno alla sensibilità e alla discrezionalità del giudice.Per far capire, però, prendo ad esempio di un mio recente caso di un mio cliente, italiano di origine somala che è stato offeso da un altro soggetto e qualificato in termini dispregiativi extracomunitario. In questi casi si parla di ingiuria, reato meno grave della diffamazione. Il giudice ha liquidato 5.000 di risarcimento danno.Si pensi al caso di prima del marito fedigrafo che per questo comportamento viene lasciato dalla moglie oppure subisce l'allontanamento dalla famiglia della moglie. In questi casi si potrebbero anche chiedere decine di migliaia di euro.5) Ed i minori? Per i minori il discorso è diverso. Questi verrebbero processati dal tribunale dei minorenni nel quale non vi è possibilità di costituirsi parte civile, chiedere il risarcimento. Il diritto minorile prevede una serie di strumenti giuridici per concludere il procedimento senza condanna (perdono giudiziale, improcedibilità dell'azione per particolare tenuità del fatto). Nei casi meno gravi normalmente tutto si chiude con una "tirata di orecchi". La famiglia del minore si espone però al rischio di subire azione civile per il risarcimento del danno, per culpa in educando o in vigilando. Su questo punto è meglio che si pronunci un civilista.6) Come comportarsi? La vera "fregatura" del mezzo informatico è che tutto quello che si immette nella rete rimane visibile per lungo tempo, è visibile da molte persone (che poi a loro volta parlano) e di ciò che si scrive rimane spesso traccia facilmente documentabile.Questo porta:• a far sì che sia molto probabile che la persona presa di mira venga a conoscenza di essere bersaglio di offese e/o denigrazioni;• che è agevole per gli inquirenti risalire comunque all'autore della diffamazione.Il consiglio è di evitare di commettere reati, di evitare di usare frasi troppo colorite. Evitare di usare modi e tono in sé offensivi. Spesso non è ciò che si dice, ma come lo si dice che crea la diffamazione.Non so: invece di creare il Gruppo quelli che odiano il Prof. Tizio carogna, creare il gruppo Quelli a cui non sta troppo simpatico il Prof. Tizio che assomiglia al Prof. Martinelli (Giulio Faletti in notte prima degli esami) che appunto nel film chiamavano Carogna. È meno diretto il messaggio, ma è più simpatico e è più facile evitare un'accusa per diffamazione.Se proprio non si resiste alla tentazione di "parlare male", evitare di utilizzare la bacheca, ma comunicare via mail o messaggeria privata.7) Considerando il contesto in cui si sono sviluppati i social network e il loro utilizzo consuetudinario le offese possono essere valutate in maniera diversa, rispetto a quello che vengono valutate in altri contesti? Sicuramente è così. Ci sono maggiori margini per ironizzare (v. l'esempio di cui sopra). Tuttavia vi è comunque un limite: continenza. Le espressioni utilizzate non possono essere di per sé offensive, altrimenti si incorre comunque nel reato di diffamazione. Dare del bastardo ad uno (tranne i casi eccezionali) ha comunque una valenza offensiva. Va bene che ci sono più margini per ironizzare, ma è pur sempre necessario un limite alla volgarità e al turpiloquio.8) Personaggio pubblico. Il diritto alla riservatezza si atteggia diversamente a seconda che il personaggio sia pubblico o meno. Meno ampio nel primo caso, più ampio nel secondo. Questo si riverbera anche sulla configurabilità della diffamazione. Dire che avete visto il vostro amico l'altra sera in compagnia dell'amante e spargerlo ai quattro venti è diffamazione. Dire che avete visto l'attore di Hollywood in un ristorante insieme ad una bionda con la quale aveva atteggiamenti molto intimi e che non era con la moglie sposata il mese prima potrebbe non essere diffamazione.Ma non certo utilizzare espressioni con carica offensiva. Anche in questo caso il limite è la continenza. Non si possono utilizzare, nei confronti dei personaggi pubblici, espressioni dotate di alta carica offensiva.9) Cosa si rischia nel creare un account con falso nome? Frequentemente accade che su Facebook si creino account falsi. Non so recentemente è apparsa la notizia che su Facebook vi fosse un falso Alessandro Del Piero. In questi casi si rischia il reato di sostituzione di persona di cui all'art. 494 c.p. La Cassazione, nel 2007, ha ritenuto che integra tale reato il comportamento di chi crea un falso account di posta elettronica intrattenendo corrispondenze informatiche con altre persone spacciandosi per una persona diversa. Lo stesso può valere per face book. Ed allora un consiglio: datevi nomi di fantasia, che ne so Jessica Rabbitt o simili, non rubate l'identità alla collega del vostro marito per verificare se vostro marito prova sentimenti nei confronti di questa o se lui fa il "mollicone". Evitate di fingervi Del Piero o altro personaggio pubblico. È pur vero che per integrare il reato di cui all'art. 494 c.p. è necessario il fine di conseguire un vantaggio o recare un danno. Ma tali requisiti sono intesi in modo molto ampio, come non comprensivi solamente di vantaggi e/o danni di tipo economico ed è molto facile ravvisarli nei casi concreti.10) Ultimo consiglio: i dipendenti pubblici. Dipendenti pubblici state attenti, si rischia anche il reato di peculato. In una recente sentenza, ancorché un po' ambigua e non condivisibile, è stato messo in evidenza che risponde di peculato il dipendente pubblico che accede indebitamente a internet (non dunque per attività che a lui competono per il lavoro che svolge ), anche quando il contratto di erogazione del servizio stipulato dalla Pubblica amministrazione è un contratto a forfait (che prevede cioè un pagamento di una tariffa fissa indipendentemente dalla durata della navigazione). Infatti, anche se un tale comportamento non provoca alcuna lesione al patrimonio della Pubblica amministrazione è comunque tale da ledere l'altro bene giuridico tutelato dalla norma che punisce il peculato: il buon andamento della PA
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